13.6.13

Monti era meglio di Letta

Con oggi fanno 45 giorni da quando Enrico Letta si è insediato come Presidente del Consiglio di un nuovo governo di unità nazionale (o larghe intese, se preferite).
Come si è arrivati al patto PD/PDL lo sappiamo tutti, il motivo che ha impedito che si tornasse a votare è stato il bisogno urgente di riforme, condicio sine qua non posta da Napolitano nel momento in cui ha accettato di farsi rieleggere come Presidente della Repubblica.
Già, il bisogno di riforme, di provvedimenti che aiutino il Paese ad uscire dalla crisi e, contemporaneamente, a resistere agli attacchi della speculazione internazionale. In fondo sono gli stessi motivi che portarono alla nascita del Governo Monti, il 16 novembre 2011.
Certo, Letta non ha l'ansia dello spread che in quei giorni assillava il Paese (ricordate la prima pagina del Sole24ore, Fate presto! Uguale a quella del Mattino dopo il devastante terremoto a Napoli del 1980) ma se confrontiamo i primi 45 giorni dei due governi viene da pensare che Letta & Co. siano sin troppo serafici.
Con il governo Monti (a proposito, ma qualcuno ultimamente ha visto il Senatore?) nello stesso lasso di tempo erano andati in porto:
  • il disegno di legge Costituzionale che inseriva il pareggio di bilancio in Costituzione;
  • la manovra fiscale anticrisi;
  • la riforma delle pensioni
Praticamente il 90% di quello che complessivamente è riuscito a fare il governo Monti.

E il governo Letta?
Incredibilmente nemmeno un provvedimento sostanziale è stato preso dal nuovo governo.
C'è stato il rinvio del pagamento della prima rata dell'IMU, si è racimolato qualche soldo per pagare la cassa integrazione per qualche mese, si sono nominati saggi, commissioni, relatori, ma non un solo provvedimento strutturale, anticrisi, è stato preso.
Per dirla più chiaramente, il governo Letta non ha fatto nulla che non avrebbe potuto fare il governo Monti in regime di ordinaria amministrazione se si fossero indette nuove elezioni all'indomani della rielezione di Napolitano.
Tra un po' viene l'estate e non mi pare ci siano accelerazioni all'orizzonte, se ne parlerà, quindi, se tutto va bene in autunno.
E allora, viene da chiedersi, ma vale davvero la pena stare al governo con Quagliariello e la Biancofiore se c'era tutto questo tempo?

10.6.13

Al PD i comuni e al PDL?



Siamo a poche ore dal risultato elettorale. Il PD ha appena sbaragliato la concorrenza. 16 a 0 nei comuni capoluogo (si partiva da 9 a 7). Il centrosinistra conquista anche 37 dei comuni superiori (+14), mentre il centrodestra passa da 41 a 13 (-38... roba da horror), contando anche meno delle liste civiche (da 6 a 18 +12). Sparisce la lega, il M5s si elegge un proprio sindaco in 2 comuni (Pomezia e Assemini).

Ora, immediatamente arriva la dichiarazione di Letta: il risultato delle amministrative rafforza le larghe intese.

Siccome uno dei due contraenti è uscito largamente vincitore e l'altro è ridotto ai minimi termini, risulta davvero difficile credere che il risultato soddisfi entrambi. Ma se il soddisfa solo il PD e l'intesa soddisfa anche il PDL... viene da domandarsi qual è la contropartita che avranno Berlusconi & Co.
Letta sta forse parlando delle riforme istituzionali? Della giustizia? Parli chiaro, com'è possibile che un risultato del genere rafforzi le larghe intese?

4.6.13

Niente di personale (a meno che non si tratti di attaccare Renzi, of course)


Mi è capitato di leggere alcune dichiarazioni del neosegretario del PD, ex leader CGIL, Guglielmo Epifani. In particolare, in occasione della presentazione dell'ultimo libro di Veltroni, ha dichiarato
"In Italia tolto il Pd abbiamo una serie di partiti personali che, lo dico con rispetto nei confronti dei loro leader, sono i partiti più anti-democratici che esistono perché dipendono dai destini del leader".
Mi viene da chiedergli se ha riflettuto bene su cosa stia dicendo.
Lo so, Epifani vuole dire che il PD non è di nessuno, mentre gli altri partiti sono costruiti intorno ad una persona (PDL con Berlusconi, SEL con Vendola, Lista Civica con Monti, M5S con Grillo, etc. etc.).
Ma se avesse riflettuto un attimo in più, forse, avrebbe capito che la differenza tra il PD e gli altri partiti sta unicamente nell'avere più leader che si contendono il partito, mentre gli altri ne hanno uno solo.
Quando, nel 1995, mi iscrissi al PDS, le correnti (che c'erano, eccome, anche allora) si chiamavano "riformisti", "comunisti democratici", "miglioristi". Dopo un po' le cose cominciarono a cambiare, nacquero i dalemiani, i veltroniani, a Napoli i bassoliniani e così via, all'infinito, sempre più in basso. Oggi l'unica corrente che non si richiama ad un nome proprio di persona è quella dei "giovani turchi" (che, vabbè, hanno poi fatto incazzare gli armeni, ma è un altro paio di maniche), per il resto abbiamo (ancora) dalemiani e veltroniani, ai quali si sono aggiunti, nel tempo, prodiani, lettiani, franceschiniani, bindiani e così via, suffissando ad libitum (ma i finocchiariani no, non sono mai nati, vai a capire).
Ora, la personalizzazione dei DS e poi del PD rispetto al partito che conobbi quasi 20 anni fa mi pare innegabile. E quello che dice Epifani, che il destino dei leader condiziona le sorti dei partiti personali, è proprio quello che è successo ai DS ed al PD. Basti pensare a Bassolino in Campania (a proposito, il libro di quello che è stato il suo ideologo di fiducia, Mauro Calise, si chiamava proprio così: il partito personale) e a D'Alema su scala nazionale. Sono vent'anni che le sorti del centrosinistra italiano dipendono dalle lotte, personali e fratricide, tra i leader del centrosinistra. Tra i leader, non tra le idee. Epifani allora cosa rivendica?  Il sospetto è che, attraverso le dichiarazioni di facciata sui personalismi, voglia invece indebolire chi, in ottica congressuale ed elettorale, aspira alla leadership del partito, ovvero Matteo Renzi, accusato da sempre di essere il personalismo fatta persona.
Si dà il caso, però, che Renzi sia l'unico, da quando è nato il governo Letta, ad avere una agenda politica (ius soli, legge elettorale, finanziamenti ai partiti...), mentre dal "partito delle idee" PD, se si escludono gli anatemi, questi sì ad personam, arriva solo un silenzio impressionante. E, a pensarci bene, era così anche durante le primarie, con Renzi a indicare il proprio programma e Bersani a rincorrere i tacchini sul tetto.
A me hanno insegnato che, in politica, le idee si combattono con le idee e con l'agire politico. Epifani, invece, mi pare che corrisponda perfettamente a quella categoria di persone che, come diceva Paul Valéry,  quando non possono attaccare il ragionamento, attaccano il ragionatore.

3.6.13

Per i giornali erano "vu cumprà". Oggi sono cittadini italiani.


Da ieri Moustapha Dieng, Cheikh Mbengue e Mor Sougou sono italiani. Si tratta dei tre commercianti senegalesi scampati alla furia omicida di stampo razzista che portò, il 13 dicembre 2011, Gianluca Casseri, intellettuale di Casapound, a trucidare due commercianti Senegalesi, Samb Modou e Diop Morun a Firenze.
La cittadinanza non può rappresentare un risarcimento per quello che i tre uomini hanno sofferto ma, almeno, come dice Kay Wallace su Repubblica, è servito a Matteo Renzi per prendere una posizione netta sulla questione dell'acquisto della cittadinanza. Il tema, per la verità, era stato già sollevato da Bersani durante la campagna per le primarie, prima, e per le politiche poi. Ma con l'avvento del governo Letta era calato il silenzio sulla questione.
Io sono completamente d'accordo con il riconoscere la cittadinanza a chi nasce in Italia, come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti. Anche perché non ritengo affatto che la cittadinanza sia un "premio", come sostengono alcuni.
Ma quando ho letto la notizia non è a tutto questo che ho pensato. Ho pensato a come i media italiani trattarono la notizia dell'assassinio di Samb Modou e Diop Morun. Un misto di razzismo e approssimazione con, purtroppo, molti precedenti. Una giornata terribile per i media italiani che parlarono per ore interminabili di "sparatoria" e "vu cumprà", mentre si trattò di una esecuzione e nessuna persona civile si sognerebbe di utilizzare il termine "vu cumprà" per identificare dei commercianti.
All'epoca immortalai la questione in uno storify che trovate qui.
Ne abbiamo di strada da fare.


1.6.13

Non è Briatore che vota Renzi, ma Renzi che ha convinto Briatore

Ci pensavo stamattina, mentre leggevo alcuni commenti su facebook sotto la notizia che Renzi e Briatore hanno mangiato assieme e, per di più, Briatore avrebbe manifestato la volontà di votarlo. La maggioranza dei commenti erano più o meno indignati e sottintendevano o dicevano esplicitamente che il fatto che Briatore manifesti la volontà di votare Renzi è di per sé un buon motivo sufficiente per non votare Renzi. Mi è allora venuto in mente questo monologo di Nanni Moretti, tratto da Caro Diario. Lo conoscerete senz'altro, compare anche su qualche maglietta.
Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste, cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone [...] Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sà che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza.
Nanni Moretti, che qualche anno dopo dirà
con questi dirigenti non vinceremo mai
e che i pregi, i difetti, ma soprattutto i complessi della sinistra italiana li ha quasi tutti, incarna benissimo, nel brano di Caro Diario, il paradosso della sinistra perdente con la quale io e tanti altri uomini e sinistra non vogliamo avere più nulla a che fare. Una sinistra che ha paura di convincere anche chi è non riconosce come uguale a sé. Una sinistra che ha un riflesso pavloviano non appena qualcuno dei propri esponenti risulta appena appena attrattivo verso "gli altri" i "barbari". E allora Briatore vota Renzi? Non è bravo Renzi che riesce a convincere anche chi non la pensa come lui, diventa immediatamente sbagliato Renzi. "Quello è di destra, hai visto che lo voterebbe anche Briatore?". E così, durante le primarie, una frase ovvia e banale come "dobbiamo convincere i delusi del centrodestra" diventa immediatamente il sintomo di un'essenza insopportabile e scatta la repulsione. Mentre ero in fila per votare alle primarie dello scorso anno li sentivo i commenti dei compagni, erano spaventati dal fatto che "quello" non parlasse solo a noi, parlava a tutti, pure agli altri. Ecco, io di questo complesso, del complesso di minoranza, non voglio saperne più. Per tanti motivi, ma fondamentalmente perché io le elezioni le voglio vincere. Con una nuova classe dirigente, possibilmente della mia generazione. E non voglio sentirla neanche più da lontano la polemica su chi è di sinistra e chi no, perché parto semplicemente da un dato: il 40% dei giovani attivi è senza lavoro e non esiste una cosa più conservatrice e di destra di dimezzare, umiliare e sottomettere le nuove generazioni.

13.2.12

Perché il PD le primarie può solo perderle

Anche a Genova. Come già era successo a Milano, in Puglia e in innumerevoli altri casi (googlando "il pd perde le primarie" si ottengono la bellezza di 2730 risultati) anche le primarie per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra nel capoluogo ligure restituiscono un risultato a sorpresa. A sfidare il centrodestra non sarà la sindaca uscente Marta Vincenzi e nemmeno la portatissima Roberta Pinotti. Sarà l'indipendente Marco Doria a rappresentare la coalizione di centrosinistra. Ovviamente le reazioni si sprecano. Si va dal pacato Civati alle irridenti cronache del Giornale e di Libero. Si sprecano i paragoni con le tante elezioni primarie in cui il PD non è riuscito a far vincere il proprio candidato (qui l'analisi di Caldarola) e da più parti si incita a presentare il conto al PD ligure . Dal mio punto di vista, invece, il punto è un altro ed è molto semplice. La sproporzione elettorale tra il PD e gli altri partiti del centrosinistra (qui qualche dato elettorale di SEL) è tale che il PD le primarie può solo perderle. Ogni volta che il PD indica ufficialmente un candidato, se questo vince è del tutto ovvio. Se perde è una disfatta. Ha ragione Follini a chiedere al partito di pensarci su? Secondo me sì. Secondo me le primarie di coalizione sono una fesseria ed il fatto che i cittadini, invece, ci sono così affezionati vuol dire una cosa sola: che non si fidano del PD.

9.2.12

Ma è vero che in Italia è impossibile licenziare?

Riprendo questo blog che non aggiorno da tempo per dire due cosette, stupide, quasi insignificanti, sul famigerato articolo 18 dello statuto dei lavoratori, di cui si parla (a seconda dei casi) come se fosse la causa di tutti i mali o, viceversa, la soluzione di tutti i problemi. Per amore di verità e per stanchezza rispetto alle tante idiozie che ascoltiamo/leggiamo sul punto tutti i giorni, vorrei mettere nero su bianco i fatti, niente di più e niente di meno. Innanzitutto cosa recita l'art. 18 della L. n.300 del 1970? Dice così:
Art. 18. Reintegrazione nel posto di lavoro. 1. Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro [...]
Primo fatto: L'art. 18 si applica nei casi in cui un giudice dichiara inefficace o annulla un licenziamento. Sembra banale ribadirlo, ma siccome mille volte mi è toccato ascoltare cose del tipo "basta con il fatto che un datore di lavoro è costretto a riassumere uno che rubava (o non lavorava, o era l'amante della moglie del padrone, etc. etc. e ci sono anche esempi illustri di tali falsità)" è bene chiarirlo: se un datore di lavoro licenzia legittimamente un proprio dipendente, in nessun caso sarà tenuto a reintegrarlo. Ma quand'è che un licenziamento è legittimo? La normativa di riferimento in questo caso è costituita dal Codice civile e dalla citata L. n.604/66. Vediamola
Art. 2119 del Codice Civile Recesso per giusta causa. Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede, per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda.

Legge n.604/66 
Art. 1 Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo. 
Art. 2 (1) 1. Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. 2. Il prestatore di lavoro può chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso: in tal caso il datore di lavoro deve, nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto. 3. Il licenziamento intimato senza l'osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 é inefficace. 4. Le disposizioni di cui al comma 1 e di cui all'articolo 9 si applicano anche ai dirigenti.
Art. 3 Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso é determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Art. 4 Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali é nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata. 

Art. 5 L'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro

[...]

Art. 8 Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro é tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.
Secondo fatto: il datore di lavoro può procedere legittimamente ad uno o più licenziamenti individuali quando ricorrano un giusta causa od un giustificato motivo, soggettivo od oggettivo. Non mi dilungherò su cosa sia da ricomprendere nell'una e nell'altra fattispecie. I link che ho inserito riportano delle spiegazioni abbastanza esaustive di un sito istituzionale (la regione Lazio), e chi avrà la pazienza di leggere troverà sicuramente una risposta ad ogni dubbio. Qui ci interessa chiarire che, dunque, in Italia, nel 2012, licenziare legittimamente un dipendente è possibile. E non è possibile solo in pochi e sporadici casi. Si può licenziare qualcuno perché ha accusato il suo superiore senza prove, perché ha uno scarso rendimento, perché ha rubato in azienda, perché ha consentito che terzi utilizzassero il proprio pc aziendale contenente dati riservati, perché ha istigato i colleghi al sabotaggio, perché timbra al posto del collega e per altre decine di motivi che chiunque può trovare con una ricerca su google o direttamente sul sito della Cassazione. Cos'è, allora, che non va nell'art.18? Perché, nonostante gli Italiani si siano dichiarati apertamente contrari, in occasione del Referendum del 2003 alla sua abolizione, gran parte dei media e l'intero centrodestra italiano vedono questa norma come e peggio del fumo negli occhi? A questa domanda non voglio rispondere. Ognuno si faccia la sua idea. Io voglio solo che si sappia che ogni volta che qualcuno dice che in Italia è impossibile licenziare, mente. In Italia è solo sanzionato con la reintegrazione nel posto di lavoro il licenziamento ingiustificato o discriminatorio. Nel primo caso quando avviene in una azienda che impiega più di 15 lavoratori, nel secondo caso a prescindere dalla dimensioni dell'azienda.

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